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Adriano Olivetti, un’eredità preziosa e sempre più attuale

Una cultura manageriale meritocratica ma inclusiva, una visione internazionale con un forte radicamento al territorio di origine, una straordinaria capacità di fare innovazione, la centralità dell’educazione, non solo tecnica ed economica, ma anche umanistica. Sono alcuni aspetti del lascito del grande imprenditore italiano che oggi sarebbe utile recuperare, come molte aziende hanno fatto

Pubblicato il 14 Apr 2014

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Osserva lo psicoanalista Massimo Recalcati sul suo ultimo libro “Il complesso di Telemaco” che «l’eredità è un movimento singolare e non una acquisizione che avviene per diritto… e vuol dire ricevere non tanti beni ma una visione del futuro, da reinterpretare e attualizzare allo Spirito del tempo». I diseredati – coloro che non ereditano – sono infatti «caratterizzati non da povertà, ma da ‘assenza di futuro’». L’ereditare non è dunque la ricerca di una rassicurazione identitaria, la presenza di un filo genetico, non è ripetizione passiva e infinita del già stato, ma è piuttosto «un salto in avanti, uno strappo, una riconquista pericolosa”, vero e proprio “retrocedere avanzando”».

Qual è dunque l’eredità di Adriano Olivetti oggi? Quali aspetti sono ancora oggi vivi e soprattutto significativi? Come può, questa eredità, essere acquisita e integrata con coerenza in aziende con storie diverse che operano addirittura in altri settori?

Fra aziende italiane che hanno fatto tesoro di questo lascito ci sono Zambon Farmaceutica (clicca qui per leggere l’intervista) e Loccioni (clicca qui per leggere l’intervista), interpretalo in funzione della loro storia aziendale, del contesto in cui operano, delle caratteristiche personali dei loro leader.

È un’eredità ricchissima: pensiamo per esempio alla cultura del design, che ha visto coinvolgere in Olivetti straordinari designer e che ha consentito di realizzare e commercializzare con successo – nell’arco di 45 anni – sette prodotti che hanno vinto il Compasso d’Oro (dalla Lettera 22 di Marcello Nizzoli del 1954 all’Artjet 10 di Michele De Lucchi del 2001). Pensiamo alla visione architettonica e urbanistica, dove grandi architetti internazionali hanno realizzato uffici, fabbriche, negozi che hanno fatto la storia dell’architettura mondiale. E l’azienda non si è limitata a scegliere le archi-star: il dialogo tra la committenza e gli architetti era intenso e fruttuoso. Nel discorso di inaugurazione del rivoluzionario stabilimento di Pozzuoli, Adriano Olivetti afferma per esempio: «Abbiamo voluto anche che la natura accompagnasse la vita della fabbrica. […] La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza». (Adriano Olivetti, Ai lavoratori di Pozzuoli, 1955).

Ma gli aspetti principali che forse soprattutto oggi sarebbe utile recuperare sono: una cultura manageriale meritocratica ma inclusiva, una visione internazionale – quasi universale – con però un forte radicamento e attaccamento al territorio di origine, una straordinaria capacità di fare innovazione, ottenuta anche contaminando diversi contesti, saperi e uomini, e che non si accontentava mai dei risultati raggiunti. E infine la centralità dell’educazione – non solo tecnica ed economica, ma anche umanistica.

Le scienze umane – oggi abbandonate dalle aziende che li considerano residui del passato – erano invece un’asse portante dell’educazione olivettiana. Permettevano di comprendere l’uomo, di coglierne le preferenze estetiche, di rassicurarlo di fronte al timore e alla potenziale “incomprensibilità” che ogni prodotto fortemente innovativo tende sempre a generare. Ettore Sottsass, uno dei grandi designer che ha lavorato per Olivetti, affermò per esempio in un’intervista: «Per rendere più comprensibili i nuovi prodotti tecnologici … si deve trovare una nuova forma che, per sua natura, sia più simbolica e meno descrittiva».

Uno degli eredi olivettiani che ha saputo usare con grande abilità questa cultura umanistica applicata all’innovazione è certamente Steve Jobs. Nel 2010 – durante la Apple World Wide Developers Conference – il fondatore di Apple afferma infatti: «We’re not just a tech company … The reason Apple is able to create products like the iPad is because we’ve always tried to be at the intersection of technology and liberal arts». Visto lo straordinario aumento della complessità e delle opportunità offerte dalle tecnologie digitali, non più solo hardware e software, ma connettività, sensoristica, contenuti multimediali, strumenti diagnostici – il recupero delle competenze umanistiche, e il loro riavvicinamento al mondo delle imprese, può forse essere una delle lezioni più importanti che la storia olivettiana ha lasciato alle nuove generazioni.

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